Ecco i migliori film italiani del 2023, dal campione d’incassi C’è ancora domani di Paola Cortellesi al vincitore del Leone d’Argento Io Capitano
All’alba del nuovo anno si tirano le somme sulle uscite nelle sale del 2023, anche per dare un’indicazione a chi vuole recuperare i titoli.
È stato un anno importante per il cinema perché dopo i due anni di Covid le presenze in sala erano pericolosamente diminuite (non che adesso la situazione sia idilliaca): a dispetto di quanto a volte non si dice il 2023 rispetto al 2019 – quindi in una situazione di pre-pandemia – ha visto un incremento del 40%, arrivando a punte vertiginose come gli strabilianti e inaspettati 30 milioni del debutto alla regia di Paola Cortellesi, caso più unico che raro.
Andiamo a vedere insieme i film più importanti e belli di questo 2023, con un occhio di riguardo alle opere che hanno saputo imporsi all’attenzione critica e degli spettatori.
I migliori film italiani usciti nel 2023, ecco quali sono
Iniziamo con Lubo di Giorgio Diritti, ispirato molto liberamente a Il Seminatore di Mario Cavatore, il quale non trova un giusto e necessario equilibrio tra la caratteristica autoriale del regista e quella spinta verso l’artigianalità che caratterizza le sue opere.
Per questo Lubo è squilibrato nella parte della detection a sfavore del racconto intimo: eppure, è innegabile che Diritti sappia innegabilmente costruire scenari sontuosi partendo dalla natura e dai suoi personaggi.
Passiamo a Io Capitano di Matteo Garrone che, anche se non è il suo film più riuscito e suona troppo film a tema, il regista sa incantare ogni volta che prende una storia e la declina con la sua ottica da favola nera, giostrando le sue opere tra il realismo più scuro e le meraviglie della fantasia più interiore. Le immagini hanno una vitalità entusiasmante grazie anche alle luci di Paolo Carnera.
Mia di Ivano De Matteo racconta il cuore nero dell’adolescenza di oggi, un nucleo magmatico e sfuggente che al cinema si rischia l’ovvietà, il generalismo o la banalità.
Non è successo per il film di De Matteo, il quale ha avuto l’occhio perfetto per raccontare un amore tossico infiltrandosi nelle pieghe del quotidiano più piatto.
Dirige allora Edoardo Leo come pochi altri hanno saputo fare e lo rende un perno straordinario per una storia dolorosa e lacerante.
Stefano Sollima chiude la sua trilogia romana con un film intimo, spiazzando il pubblico e avvolgendolo con una storia nerissima. Servito a puntino da tre interpreti d’eccezione in una gara di bravura e immedesimazione (ovviamente Servillo, Mastandrea e Favino), Adagio fa parte dell’avanzata di quel nuovo cinema italiano indefinibile nel genere che sfuma tra noir, dramma esistenziale e thriller ma imbocca strade diverse, rinnovandosi e rigenerandosi grazie a storie fortissime.
Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores è un film cristallino: c’è Giacomo Casanova (Fabrizio Bentivoglio) che a 58 anni sembra stanco del gioco di seduzione che ha condotto finora e decide di mettersi a nudo (anche letteralmente) per ritrovare le vecchie emozioni, e poi c’è Leo Bernardi (Toni Servillo) – nomen omen – regista di successo che nella fase di ultimazione di post-produzione resta fermo ad un’empasse che è creativa ed esistenziale insieme, quando si rende conto che montare le scene di un film implica una scelta che lui non ha il coraggio di fare.
Se la parte letteraria è a colori, quella contemporanea è in bianco e nero: in questo modo, Salvatores opera una precisa scelta stilistica per ammorbidire quella che è tra le sue opere più intime e compiute; un film che si fa potente ed elegante nel suo svolgersi sempre meravigliosamente sfocato, diventando involontariamente o meno una riflessione sapientemente drammatica e profonda.
L’ultima notte di amore di Andrea Di Stefano si muove sinuoso, giovando con gli incastri di una trama congegnata con la precisione di un thriller d’altri tempi: riuscendo addirittura a stupire con una struttura a semicerchio che cede il passo, a metà film, ad una impalcatura drammaturgica da tragedia inevitabile e proprio per questa ancora più dolorosa.
Linda Caridi, Carlo Gallo e Antonio Gerardi si inventano i loro calabresi shakespeariani, certi però che per ogni loro sbandata c’è sempre la forza centripeta del film che salva tutto: nonostante abbia interpretato un po’ tutto e tutti, Favino riesce ancora a trovare sfumature inedite per i suoi personaggi e a coinvolgere anche emotivamente, regolando il suo Franco Amore ad altitudini emozionali altissime.
Il film di Enzo D’Alò, Mary e lo spirito di mezzanotte, tratto dal romanzo di Roddy Doyle, ed è un vero gioiello di essenzialità, intelligenza e fascino: una favola sul tempo che alterna ed unisce animazione classica a uno stile più sperimentale, che riesce anche a parlare con garbo del tema della perdita e continuare ad essere un’operazione per ogni età. Fa un po’ rabbia pensare che D’Alò non abbia ancora il riconoscimento che spetta ai grandissimi.
Enea di Pietro Castellitto mira a un cinema ambizioso ma a ragion veduta: qui avviene l’analisi della famiglia e alla seconda regia, tradizionalmente quella più difficile, dimostra quanto è bravo a girare e che occhio ha per la messa in scena e per gli attori: un film che brucia di vita e di passione.
Fantascienza in Italia con La guerra del Tiburtino III di Luana Galano, il quale prende le stigmate del B-movie e racconta le periferie, la voglia di riscatto, la pochezza degli uomini e lo scollamento con il reale della politica con umorismo nerissimo e tanta emozione. Fintamente dozzinale, il film mostra una strada che spaventa ma che potrebbe e dovrebbe essere più frequentata, Groenlandia insegna.
I Limoni d’Inverno, Palazzina Laf, C’è ancora domani e Cento Domeniche
I Limoni d’Inverno di Caterina Carone è un film sulle solitudini che si incontrano e mostrano la fragilità dei rapporti umani: semplice e lineare, il film ricorda il Giuseppe Piccioni di Fuori Dal Mondo e Questi Giorni, e si srotola co levità sui sorrisi e sui volti della Saponangelo e di De Sica.
Entrambi una conferma: ma se il cinema ci ha già abituato alla luminosa bravura di lei, è su De Sica che vanno puntati i riflettori, perché si gioca la carriera -ovviamente vincendo su tutta la linea- voltando pagina, facendo dimenticare sia gli eccessi comici pur se usati sempre con enorme professionalità ma non sempre centrati, sia le sue precedenti prove serie più o meno drammatiche.
L’esordio alla regia di Michele Riondino con Palazzina Laf approfitta della sua inusitata originalità per spingere su dinamiche narrative affascinanti e interessanti: Riondino stesso -presente anche in scena-, ma anche Elio Germano e Vanessa Scalera, con un imprinting particolarmente potente si scrollano di dosso la maggior parte dei rischi retorici (anche grazie al registro grottesco a là Wertmuller) e regalano un agghiacciante -perché dolorosamente realistico- ritratto delle classi operaie e quindi di un sistema di caste sociali, restituendo vizi e virtù sia dei dominati che dei dominanti.
Parlando di esordi non possiamo che citare C’è ancora domani di Paola Cortellesi, un esordio che in tanti guardavano con sospetto, e anche per questo ha stupito tutti.
Un film divisivo, come ogni opera dovrebbe essere, che accende dibattiti, come ogni film dovrebbe fare: ma soprattutto, al di là dei gusti personali, un piccolo film in bianco e nero che parla della violenza sulle donne e usa richiami al neorealismo, che ha portato in cassa 30 milioni di incasso, battendo blockbuster come Barbie e Oppenhaimer.
Cento Domeniche di Antonio Albanese è un film gentile e drammatico, enorme nella sua brutale sincerità: è gentile per come prende lo spettatore per mano e lo accompagna nella discesa agli inferi del suo protagonista, con quei primi 44 minuti dove non c’è una nota di commento musicale così da restituire il senso di placida assenza prima che si tramuta dopo in lacerante vuoto; è gentile perché è buono con i suoi personaggi, nel momento in cui, con sottigliezza d’altri tempi, assimila vittime e carnefici perché il Male e il Bene passano indifferentemente attraverso i corpi di tutti.
Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti è un film che, come ogni opera, ha i suoi codici, livelli e linguaggi, che hanno poco a che vedere con i gusti personali, sentimenti, idee politiche e fastidi privati.
Anzi, il fatto che i film di Moretti alzino ogni volta un vespaio, pungendo sul vivo lo spettatore, dimostra un primo dato incontrovertibile: cioè che Nanni è riuscito, come pochi o pochissimi alti, a fondere pubblico e privato, individualismo e collettività, creando un immaginario cinematografico che si sovrappone a quello sociale e culturale.
Il carcere non è il fulcro narrativo di Grazie Ragazzi di Riccardo Milani, ma solo il contesto, il pretesto per raccontare storie di persone ai margini, di solitudini inconciliabili, di vite troppo complicate da risolvere.
In questa collaborazione tra Milani e Albanese, quest’ultimo svetta su tutti con un ruolo piccolo ma una recitazione gigantesca, e il finale del film sgretola le visioni accomodanti dell’arte che salva la vita infrangendosi con la realtà.
La top 3 dei migliori film italiani del 2023
La Chimera di Alice Rohwacher è un film eccezionale che ricerca geometrie esistenziali con sorriso leggero tra suggestioni e intuizioni geniali, intermittente tra lampi e segnali, tra dimensioni parallele, sparizioni, attese.
Mimì Il Principe delle tenebre di Brando De Sica è un piccolo capolavoro e non poteva che essere sul podio tra i migliori film del 2023: qui prende vita Mimì, il protagonista, nato con una deformazione ai piedi, una malattia che nel Medioevo sarebbe stata interpretata come un segno del passaggio del diavolo sul suo corpo, e che per questo viene preso di mira dal baby boss del quartiere, Bastianello, anche cantante neomelodico.
Il film prende coraggio da un sistema produttivo che sembra aver accolto a braccia aperte i generi e i freaks, come i Jeeg Robot e Freaks Out di Gabriele Mainetti dimostrano: ma si sbarazza subito delle strizzatine d’occhio al grande pubblico e si scarnifica al servizio del malessere della periferia, mostrando i canini aguzzi di una società che stritola i margini.
De Sica declina la sua storia sotto il segno di una cinefilia raffinata di un’ossessione ostinata, caratteristiche così connaturate al suo sguardo da cineasta che permettono anche l’inserimento spontaneo di aperture fiabesche e delicate.
Allora il film diventa davvero magma ribollente, e svicola tra esplosioni di follia, schizzi di sangue e notti crepuscolari dipingendo Napoli come centro propulsore gotico ora illuminato da lampi oscuri, ora da fasci di luce favolistici, ora spento da ombre filtrate in controluce.
Infine, sul punto più alto della classifica sui migliori film del 2023 troviamo Rapito di Marco Bellocchio, il quale racconta allora un altro rapimento, affondando i denti (come ha fatto diverse volte in passato) nella storia, ma in una storia sospesa tra fatti e libere interpretazioni dei coni d’ombra della cronaca.
Perché il cinema di Marco Bellocchio continua a soffrire splendidamente la fascinazione della potenza delle immagini, un’illusione (il cinema) che si muove tra iconoclastia e venerazione.