Il noto marchio di fast fashion Zara è finito sotto accusa per aver pubblicato una nuova campagna pubblicitaria intitolata The Jacket che, secondo molti, aveva una forte somiglianza con le scene di guerra in corso tra Gaza e Israele.
La campagna, che è stata diffusa su tutte le piattaforme di social media del rivenditore, presenta la collezione Zara Atelier modellata da Kristen McMenamy.
La campagna di Zara Atelier sotto accusa
A cogliere l’attenzione del popolo social non sono stati però i ricami in stile fammingo, né le perline o le balze in organza che caratterizzano alcune delle sei giacche: colpa degli oggetti di scena, cioè statue di corpi umani – interi o formato busto – avvolti in cellofan semi-trasparente e tessuti bianchi che sembrerebbero ricordare i sudari utilizzati sul fronte per conferire dignità ai corpi caduti in guerra.
Ancora, un dettaglio a forma di triangolo capovolto sullo sfondo avrebbe ricordato a qualcuno la cartina geografica della Palestina antica.
Un altro tassello del puzzle, a cui si starebbe appellando chi già nel 2021 aveva scagliato le proprie accuse contro Vanessa Perilman: quest’ultima, Head of Design di Zara, era finita nel mirino perché pare avesse indirizzato parole d’odio al modello palestinese Qaher Harhash, in una conversazione social privata.
Una chat che sarebbe stata poi diffusa dallo stesso modello e diventata virale fino a comportare la richiesta di boicottare il brand.
Moltissimi utenti hanno rivisto nella campagna le immagini del genocidio in corso e la cosa ha suscitato un’indignazione tale da far crollare il sentiment del marchio al 76,4% in negativo e solo al 4,2% in positivo dopo la pubblicazione della pubblicità.
La missione della campagna pubblicitaria della Collection 04_The Jacket di Zara Atelier doveva essere soltanto la valorizzazione di un capo chiave del guardaroba femminile: la giacca.
Come spiegato anche dal comunicato ufficiale divulgato dal brand, “Zara Atelier ri-eleva i paradigmi del fashion design per reinventarli”.
Il risultato si traduce così in un “edit ristretto di sei nuove espressioni” della giacca, spaziando nelle tecniche sartoriali, i materiali utilizzati, la funzione e i dettagli.
C’è chi ha accusato Zara di voler sfruttare gli eventi tragici che si stanno verificando per scopi di marketing e molti si stanno già spendendo per boicottare il marchio.
Gli utenti hanno espresso il loro sdegno, descrivendo le immagini come malate e mettendo in dubbio l’adeguatezza della campagna.
Altri ancora hanno pubblicato post sostenendo che non è possibile che sia una coincidenza, anche se per una questione di tempistiche tecniche la campagna, l’idea di marketing e il set fotografico è probabile siano stati chiusi mesi prima dello scoppio della guerra.
Nonostante questo, tra i commenti più duri quelli che hanno parlato di un dolore non in vendita.
Se da una parte il marchio è finito sotto accusa, dall’altra diversi utenti hanno provato a difendere le buone intenzioni di Zara sostenendo che in fin dei conti si tratti di una semplice coincidenza, invitando a non cercare del marcio ovunque.
È nata addirittura una petizione su Change.org il 10 dicembre per richiedere il licenziamento di Vanessa Perilman.
Intanto, mentre l’altra metà del popolo social suppone che questa sia solo un’interpretazione lontana dalla pura ispirazione artistica, dal gruppo Zara arriva in risposta la dichiarazione ufficiale: “La campagna, che è stata concepita a luglio e scattata a settembre, presenta una serie di immagini di sculture non terminate all’interno dello studio di uno scultore. È stata creata con il solo scopo di presentare abiti artigianali in un contesto artistico».
“Sfortunatamente – conclude il brand spagnolo su Instagram, – alcuni clienti si sono sentiti offesi da queste immagini, adesso rimosse, e hanno visto in esse qualcosa di molto lontano da quella che è stata l’intenzione quando sono state create. Il gruppo Zara si rammarica per l’incomprensione e riafferma il proprio profondo rispetto nei confronti di tutti”.