Un accordo preliminare è stato raggiunto tra il Parlamento e il Consiglio europei riguardo al nuovo regolamento sulla progettazione ecocompatibile, destinato a sostituire l’attuale Direttiva europea sull’ecodesign (2009/125/CE). Partendo dalla proposta di modifica presentata dalla Commissione europea a marzo 2022, i negoziatori hanno concordato che i requisiti per la progettazione ecocompatibile dovrebbero affrontare le problematiche legate all’obsolescenza programmata, fenomeno in cui un prodotto diventa non funzionante o meno efficiente a causa delle scelte di progettazione. Inoltre, l’accordo mira a potenziare vari aspetti dei prodotti per l’intero ciclo di vita, al fine di renderli più resistenti, affidabili e agevolare il loro riutilizzo, riparazione e riciclo. Vediamo come questo potrebbe aiutare a combattere il problema del fast fashion.
Partiamo col rispondere alla domanda “Che cos’è il fast fashion?” Il fast fashion (e l’ultrafashion) sono modelli di business che si sono gradualmente infiltrati nella nostra vita quotidiana, trovando la massima espressione nell’acquisto compulsivo, spesso senza che ne fossimo consapevoli. La dipendenza dalla moda a basso costo è alimentata dal costante senso di necessità, urgenza e scarsità, veicolato attraverso diverse strategie di marketing.
Acquistiamo per paura di perdere l’opportunità, per le emozioni della tristezza o della felicità. Comprare diventa una risposta al timore che quel capo possa esaurirsi, anche se ogni anno vengono prodotti oltre 100 miliardi di nuovi indumenti, e ogni secondo un camion, spesso carico di eccedenze invendute, viene svuotato in discariche.
Il mercato della moda veloce, con un valore di 36 miliardi di dollari, continua a crescere implacabilmente nonostante gli sforzi degli ambientalisti e gli avvertimenti degli scienziati. Riempie gli scaffali dei negozi, le ante dei nostri armadi e le dune dei deserti in luoghi dove le persone non hanno cibo né acqua, ma possiedono l’ultima gonna di tendenza.
Ma quando è nato questo fenomeno? Che impatto ha sulla nostra vita?
Nel 1800, negli Stati Uniti, sorgono gli “slop shop”, i primi negozi che non offrono abiti su misura, ma uniformi o indumenti di seconda mano per lavoratori o cittadini meno abbienti. Sebbene queste realtà siano distanti dalle catene di abbigliamento attuali, costituiscono comunque il seme di uno dei maggiori problemi mondiali.
Durante la rivoluzione industriale, con l’avvento delle prime industrie e delle macchine da cucire, la produzione di abiti smette di essere un processo lento e costoso. Tuttavia, l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale segna una brusca frenata: le stoffe vengono razionate e i capi diventano sempre più standard.
Nel 1947 nasce la catena H&M, seguita da Zara nel 1975. Successivamente, viene fondata la holding Inditex, che detiene oggi, oltre ai marchi menzionati, anche Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho.
Il fenomeno del fast fashion emerge, però, principalmente negli anni 2000, caratterizzato da decine di collezioni nuove all’anno che replicano, a basso costo, i modelli delle grandi maison.
Insieme all’insicurezza economica e alla crisi, secondo Elizabeth Cline, scrittrice ed esperta del settore, le “micro-stagioni” del fast fashion sono ben 52. Tuttavia, a superare la velocità della moda veloce è l’ultrafashion, il nuovo modello di business che può arrivare a produrre fino a 6000 nuovi capi al giorno.
Il target principale sono gli under 25 che ordinano o ricevono in regalo da giganti del settore scatole e scatole di vestiti in cambio di video chiamati “try on haul” per promuovere i nuovi arrivi.
Ma qual è il problema di tutto ciò? Semplice: troppi prodotti portano a troppi futuri rifiuti.
Colpa o responsabilità? È colpa di un’economia che non ci permette di spendere molto per capi di qualità o forse è una questione di valori che abbiamo perso? Siamo vittime di un mondo in cui tutto deve essere veloce: dai “mi piace” a un post fino al successo in ambito lavorativo.
L’impatto di questa industria è significativo e inizia prima ancora che un capo venga concepito. Iniziamo con le materie prime: cotone e viscosa sono fibre di origine naturale ma richiedono notevoli quantità d’acqua per la produzione. Poi ci sono nylon, acrilico, poliuretano o elastan, tutti derivati da idrocarburi come il petrolio. Una volta che i fili sono prodotti e intrecciati per formare i capi, devono essere colorati: un aspetto non trascurabile, considerando che diverse inchieste hanno rivelato la presenza di sostanze cancerogene in vari capi d’abbigliamento, compresi quelli destinati ai bambini.
Il recente regolamento sulla progettazione ecocompatibile, ratificato dal Parlamento e dal Consiglio europei, introduce normative più rigorose per i prodotti chiave immessi sul mercato dell’Unione europea.
Le nuove disposizioni mirano a potenziare la sostenibilità dei prodotti lungo l’intero ciclo di vita, dalla progettazione alla produzione, all’uso e allo smaltimento. In particolare, il regolamento prevede di:
– Abolire l’obsolescenza programmata, ossia la progettazione di prodotti con una durata di vita artificialmente limitata
– Promuovere la durabilità e l’affidabilità dei prodotti, rendendoli più robusti e meno inclini a guasti
– Favorire la riparabilità e il riciclaggio dei prodotti, semplificando lo smontaggio e il riciclo dei loro componenti
I prodotti interessati dalle nuove disposizioni includono:
– Articoli tessili (specialmente abbigliamento e calzature)
– Mobili (comprese le strutture dei materassi)
– Ferro e acciaio
– Alluminio
– Pneumatici
– Vernici
– Lubrificanti
– Prodotti chimici (come cosmetici)
– Prodotti legati all’energia (ad esempio, condizionatori e caldaie)
– Dispositivi elettronici (come computer e smartphone)
L’applicazione dei nuovi requisiti è programmata a partire dal 2027. Questo regolamento rappresenta un passo significativo verso un’economia circolare in Europa e dovrebbe contribuire a ridurre l’impatto ambientale dei prodotti, prolungandone la durata e minimizzando la produzione di rifiuti.
I nuovi criteri si concentrano principalmente sulla robustezza, la possibilità di riutilizzo e la riparabilità dei prodotti. Un’esame sarà dedicato alla “presenza di sostanze chimiche che ostacolano il riutilizzo e il riciclaggio dei materiali“. In aggiunta, verranno valutati l’efficienza energetica, l’utilizzo delle risorse, la presenza di materiali riciclati e l’impronta di carbonio e ambientale.
Il rispetto di tali requisiti sarà registrato in un “passaporto digitale”, accessibile ai consumatori. Questo passaporto mira a semplificare scelte consapevoli per i consumatori, migliorando l’accesso alle informazioni sui prodotti. Allo stesso tempo, agevolerà gli operatori di riparazioni e riciclo, consentendo loro di accedere alle informazioni rilevanti e contribuendo a rafforzare l’applicazione dei requisiti legali da parte delle autorità. Pur non essendo ancora definito il formato esatto di questo “passaporto”, la Commissione prevede che sarà un’etichetta facilmente consultabile sui prodotti, offrendo un immediato accesso alle informazioni sulla sostenibilità del prodotto.
Per quanto riguarda il settore tessile, e quindi tutto ciò che riguarda il fast fashion, il recente regolamento adotta misure decisive “per porre fine alla pratica dannosa e ambientalmente onerosa di distruggere i prodotti di consumo invenduti“, come dichiarato dalla Commissione. Attualmente, l’attenzione è concentrata sull’industria dell’abbigliamento, con l’introduzione di un divieto diretto sulla distruzione dei prodotti tessili e calzaturieri invenduti. Questo divieto sarà implementato gradualmente, con deroghe per le piccole imprese e un periodo di transizione per quelle di medie dimensioni. Bruxelles sta valutando l’estensione del divieto ad altri settori in una fase successiva.
Le grandi imprese dovranno comunicare annualmente la quantità di prodotti invenduti distrutti, un provvedimento progettato per scoraggiare fortemente questa pratica, secondo la Commissione dell’Unione Europea.
Bruxelles afferma che l’insieme delle norme introdotte favorirà la creazione di posti di lavoro nei settori della manutenzione, del riutilizzo, del riciclaggio, della ristrutturazione, della riparazione e della vendita di oggetti di seconda mano. Le stime indicano che tali attività potrebbero generare da 30 a 200 volte più posti di lavoro rispetto allo smaltimento in discarica e all’incenerimento.
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