In 20 anni il Mezzogiorno ha perso oltre 1 milione di persone. Dallo studio emerge un Paese spaccato e metà con un Pil a due velocità e un Meridione alle prese con “livelli patologici di precariato” e tassi “inediti di povertà”
Un’Italia spaccata a metà con un Pil a due velocità e un sud sempre più spopolato e alle prese con “livelli patologici di precariato” e tassi “inediti di povertà”. Il quadro che emerge dal nuovo rapporto Svimez non lascia spazio all’ottimismo. Mentre la diminuzione delle nascite e l’aumento della speranza di vita hanno portato l’Italia a essere tra i Paesi europei più anziani, le migrazioni interne e verso l’estero hanno ampliato gli squilibri demografici Sud-Nord.
Risultato, il Mezzogiorno continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati. Dal 2002 al 2021 si stima si stiate oltre 2,5 milioni di persone a lasciare il sud Italia , in prevalenza verso il Centro e il Nord (81%). Al netto dei rientri, l‘emorragia è pari a 1,1 milioni di residenti. Un fenomeno tanto più preoccupante se si considera che a migrare sono in prevalenza i giovani: in vent’anni se ne sono andati oltre 800mila under 35, di cui 263mila laureati.
Le stime per il futuro appaiono a tinte fosche, con una perdita stimata nel 2080 di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, quasi dei due terzi del calo nazionale (13 milioni). La popolazione del Sud si ridurrà così ad appena il 25,8% di quella totale (oggi è quasi 34%).
Il progressivo processo di invecchiamento del Paese non invertirà la rotta nei prossimi decenni. Tra il 2022 e il 2080, al Mezzogiorno si stima una perdita di oltre la metà della della popolazione più giovane (0–14 anni), pari a 1 milione e 276 mila unità, contro il –19,5% del Centro-Nord (–955 mila). La popolazione in età da lavoro si ridurrà al Sud di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centro-Nord di circa un quarto (–6,3 milioni di unità). Il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.
Occupazione femminile – Per invertire la tendenza del calo delle nascite, mette in guardia lo Svimez, è necessario mettere in campo politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare. Il potenziamento dell‘occupazione femminile nel Mezzogiorno infatti è cruciale per contrastare il declino demografico. Le regioni meridionali presentano il tasso più basso di occupazione femminile in confronto alla media Ue (72,5%), con Campania (31%), Puglia (32%) e Sicilia (31%) in fondo alla classifica. Una donna single nel Mezzogiorno ha un tasso di occupazione del 52,3%, un dato che nel caso di donna con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni scende al 41,5% per poi crollare al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni (65,1% al Centro-Nord), la metà rispetto ai padri (82,1%).
Asili nido – Il Sud sconta gravi ritardi anche sul fronte della scuola dell’infanzia. Basta guardare il dato relativo ai posti negli asili nido autorizzati per 100 bambini tra 0-2 anni nel 2020. Campania (6,5), Sicilia (8,2), Calabria (9) e Molise (9,3) sono le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo del 33% da raggiungere entro il 2027.
In questo senso, gli investimenti del Piano di ripresa e resilienza che mirano a colmare queste disparità non sono stati programmati a partire da una mappatura territoriale dei fabbisogni bensì attraverso procedure a bando, osserva Svimez. E la riduzione degli obiettivi del Pnrr per i nuovi posti asili nido (da 248 mila a 150 mila) “solleva preoccupazioni sulla possibilità di raggiungere il target europeo”.
Rispetto al periodo pre-pandemia la ripresa dell’occupazione si è mostrata più accentuata nelle regioni meridionali: +188 mila nel Mezzogiorno (+3,1%), +219 mila nel Centro-Nord (+1,3%). Allo stesso tempo la precarietà del lavoro e “la vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale resta su livelli patologici”. Quasi quattro lavoratori su dieci (22,9%) nel Mezzogiorno hanno un’occupazione a termine, contro il 14% nel Centro-Nord. Il 23% dei lavoratori a temine al Sud lo è da almeno cinque anni (l’8,4% nel Centro-Nord). Tra il 2020 e il 2022 è calata la quota involontaria sul totale dei contratti part time in tutto il Paese ma il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord resta ancora molto pronunciato: il 75,1% dei rapporti di lavoro a tempo parziale al Sud sono involontari contro il 49,4% del resto del Paese.
Livelli inediti di povertà – L’incremento dell’occupazione non è in grado di alleviare il disagio sociale in un contesto di diffusa precarietà e bassi salari. Nel 2022 la povertà assoluta è aumentata in tutto il Paese, con 2,5 milioni di persone che vivono in famiglie in povertà assoluta al Sud: +250mila in più rispetto al 2020 (–170mila al Centro-Nord). La crescita della povertà tra gli occupati conferma che il lavoro, se precario e mal retribuito, non garantisce la fuoriuscita dal disagio sociale. Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie che lavorano cresce di quasi due punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (dal 7,6 al 9,3%).
L’impatto dell’inflazione sui redditi delle famiglie – L’accelerazione dell’inflazione registrata nel 2022 ha eroso soprattutto il potere d’acquisto delle fasce più deboli della popolazione. Sono state colpite con maggiore intensità le famiglie a basso reddito, prevalentemente concentrate nelle regioni del Mezzogiorno. Nel 2022 l’inflazione ha polverizzato 2,9 punti del reddito disponibile dei nuclei meridionali, oltre il doppio del dato relativo al Centro-Nord (–1,2 punti).
Rispetto alle altre economie europee, in Italia la dinamica inflattiva si è ripercossa in maniera significativa sui salari reali italiani, che tra il 2021 e il 2023 hanno subìto una contrazione molto più pronunciata rispetto all media Ue a 27 (–10,4% contro –5,9%), e ancora più intensa nel Mezzogiorno (–10,7%).
“L’autonomia differenziata a federalismo fiscale inattuato è anacronistico se si considerano gli shock che hanno colpito l’economia e la società italiana negli ultimi tre anni. Shock globali che hanno fatto emergere i limiti di risposte frammentate a livello territoriale. L’autonomia differenziata espone l’intero Paese ai rischi di una frammentazione insostenibile delle politiche pubbliche chiamate a definire una strategia nazionale per la crescita, l’inclusione sociale e il rafforzamento del sistema delle imprese”. Il rapporto Svimez boccia l’autonomia differenziata e mette in guardia rispetto al rischio che il divario territoriale venga ulteriormente ampliato.
Secondo le stime, le funzioni delegate assorbirebbero larga parte dell’Irpef regionale: il 90% circa nel caso del Veneto, quote tra il 70 e l’80% per Emilia-Romagna e Lombardia. Rilevanti sarebbero gli effetti in termini di contrazione del bilancio nazionale, con la conseguente riduzione degli spazi di azione della finanza pubblica centrale. Il gettito trattenuto dalle tre regioni risulterebbe pari a circa il 30% del gettito nazionale.
Il Pil italiano viaggia a due velocità nel 2023. La crescita del prodotto interno lordo nazionale è stimata a +0,7%, con un aumento del 0,8% nel Centro-Nord, che al Mezzogiorno di dimezza allo 0,4%. L’ampliamento del divario di crescita Nord-Sud è imputabile al calo dei consumi delle famiglie (–0,5%) nel Mezzogiorno causata da una contrazione del reddito disponibile (–2%), doppia rispetto al Centro-Nord.
Nel 2024 si stima che il Pil aumenti dello 0,7% a livello nazionale, per effetto del +0,7 del Centro-Nord e del +0,6 del Mezzogiorno. Al Sud la crescita dei consumi delle famiglie dovrebbe tornare in positivo, sia pure mantenendosi al di sotto della media del Centro-Nord (+0,8 contro +1,3%), grazie al raffreddamento dell’inflazione.
L’effetto positivo del Pnrr sul Pil – Sulla dinamica del Pil nel biennio 2024-2025 incidono gli effetti espansivi degli interventi finanziati dal Pnrr, con un impatto cumulato che la Svimez stima in 2,2 punti percentuali “nell’ipotesi di completo e tempestivo utilizzo delle risorse disponibili” (+2,5 nel Mezzogiorno e +2% nel Centro-Nord). Secondo le previsioni, il Pnrr eviterà la recessione al Sud e una sostanziale stagnazione al Centro- Nord nel biennio.
Il contributo del Piano di ripresa e resilienza alla crescita dei prossimi due anni dipenderà ovviamente dallasua effettiva attuazione. Il monitoraggio della Svimez conferma le criticità già evidenziate in termini di capacità delle amministrazioni locali del sud. Da qui l’urgenza di rafforzarne gli organici e le competenze.
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