Il governo Meloni ha deciso di non rinnovare l’intesa siglata con Pechino nel 2019 e in scadenza nel marzo del 2024. Ragioni economiche e opportunità politica, le ragioni dietro la scelta. Il ministro degli Esteri Tajani: “Non è la nostra priorità ma continuiamo a lavorare per rafforzare gli scambi commerciali”
Una scelta ampiamente prevista, senza annunci o strappi, ma che segna un passaggio strategico nella politica estera del governo guidato da Giorgia Meloni. L’Italia è uscita ufficialmente dalla Via della Seta. Il sipario è calato con una nota della Farnesina consegnata a Pechino nei giorni scorsi in cui è stato messo nero su bianco il mancato rinnovo del memorandum firmato dal primo governo Conte nel 2019 e in scadenza nel marzo del 2024.
Una decisione, a cui si è arrivati dopo un negoziato con le controparti cinesi, presa sulla base di due ragioni fondamentali. La prima è di ordine economico: l’intesa non ha prodotto i benefici attesi. La seconda, di natura politica, riguarda la volontà di superare l’anomalia di una relazione, unico caso nel G7, che aveva spostato il baricentro della diplomazia italiana a Est, provocando non poche preoccupazioni a Washington e a Bruxelles.
D’altro canto il governo ha puntato su una exit strategy morbida, a fari spenti per non irritare la leadership cinese. Da qui il “no comment” di Palazzo Chigi sulla lettera inviata a Pechino. Nelle intenzioni di Roma, l’addio alla Via della seta del resto non equivale a un indebolimento dei rapporti con Pechino. Piuttosto torneranno a svilupparsi in un modo più pragmatico.
Pechino non ha voluto commentare direttamente la scelta di Roma, arrivata proprio nel decennale della Belt and Road Initiative, celebrato a Pechino con un vertice che ha riunito oltre 130 Paesi. Né ha fatto trapelate finora valutazioni sul possibile impatto del mancato rinnovo, primo caso da quando l’iniziativa è stata lanciata dal presidente Xi Jinping nell’ottobre del 2013 con l’obiettivo di creare un grande spazio economico eurasiatico, un ponte tra Oriente e Occidente, per agevolare e incentivare la cooperazione commerciale e diplomatica.
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin li è limitato a dire, rispondendo a una domanda dell’agenzia Ansa, che “la Cina si oppone alla denigrazione e al sabotaggio dell’iniziativa”, così come al “confronto tra blocchi”, dopo aver ricordato che 150 Stati, “inclusa l’Italia”, hanno partecipato al terzo Forum della Bri di metà ottobre. “La Via della seta è un’iniziativa di successo e la più grande piattaforma al mondo di cooperazione tra Paesi”.
L’uscita dell’Italia dalla Via della Seta è stata preceduta da una missione in Cina del segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia in estate e a seguire dalla visita del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Incontri con i quali è stata confermata l’intenzione di coltivare il partenariato strategico tra i due Paesi, mentre sono state poste le basi per la visita del presidente Sergio Mattarella in Cina in programma il prossimo anno. Nella lettera recapitata a Pechino del resto è stata ribadita la volontà di “sviluppare e rafforzare la collaborazione bilaterale“.
Nel 2019, quando al governo c’era l’alleanza “giallo-verde” tra Movimento 5 stelle e Lega guidata da Giuseppe Conte, l’Italia ha scelto di aderire in ragione dei potenziali effetti benefici per il made in Italy. Con l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi l’accordo con Pechino ha iniziato a vacillare e sulla stessa linea si è mossa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, definendo il memorandum “un grande errore” già in campagna elettorale.
Arrivata al governo, la premier ha avviato un percorso di riflessione e di confronto a livello diplomatico e politico con Pechino che ha portato allo stop dell’intesa. La stessa Meloni ne ha parlato con l’omologo cinese Li Qiang a margine del G20 in India, lo scorso settembre, e l’interlocutore ha preso atto della decisione italiana pur non approvando.
“Nazioni europee che non hanno fatto parte della Via della Seta sono riuscite a stringere rapporti più vantaggiosi di quelli che a volte stringevamo noi“, ha spiegato di recente Meloni. Mentre Tajani ha puntato apertamente il dito verso Berlino e Parigi: “Non era vantaggioso per noi in prospettiva perché Germania e Francia hanno avuto un fatturato superiore al nostro. Adesso vediamo come rafforzare il rapporto con la Cina”, ha detto il titolare della Farnesina. In questo senso, ha ribadito ieri in Parlamento, il governo ha deciso di rilanciare il “partenariato strategico” con Pechino, che è in vigore dal 2004.
“La via della Seta non è la nostra priorità, abbiamo visto che non ha prodotto gli effetti sperati, anzi. Chi non è parte del percorso della via della Seta ha avuto risultati migliori“, ha ribadito il leader di Forza Italia in un forum con l’agenzia Adnkronos. D’altra parte, ha precisato il ministro, le relazioni commerciali non si interromperanno, anzi saranno intensificate. “La non partecipazione alla Via della seta non significa che sia un’azione negativa nei confronti della Cina, significa poter continuare ad avere ottimi rapporti e lavorare intensamente sugli aspetti commerciali per rafforzare la nostra presenza sul mercato”. In questo senso, Roma ha “già convocato per l’anno prossimo a Verona la riunione intergovernativa Italia-Cina per affrontare tutti i temi di commercio internazionale. Continuano ad esserci ottimi relazioni e rapporti, pur essendo un Paese che è anche un nostro competitor a livello globale”.
Sulla rinuncia alla Via della Seta hanno pesato anche ragioni di opportunità politica. In una fase in cui Pechino si contrappone all’Occidente sui grandi dossier internazionali, a partire dalle guerre in Ucraina e a Gaza, l’Italia vuole marcare in modo più evidente l’ancoraggio euro-atlantico. Non a caso Washington ha avuto un’interlocuzione costante con Roma sul tema, auspicando un ripensamento dell’alleato. L’abbandono della Via della seta è coinciso con l’adesione dell’Italia a un progetto alternativo a quello cinese promosso dagli Usa per un nuovo corridoio economico India – Medio Oriente – Europa.
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